Troppo allenatori, poco educatori

Nella vita associativa di una societa’ di pallacanestro la componente piu’ importante secondo il mio parere e’ quella degli allenatori. La chiave del successo di un allenatore e’ amalgare tutta una serie di fattori… L’allenatore e’ la stella polare del sistema sportivo, colui che coordina le altre tre componenti cioe’: atleti, dirigenti e genitori. In questo ultimo anno sportivo purtroppo abbiamo dovuto fare a meno di quattro allenatori, per un motivo o per un altro non si identificavano nel sistema allenatore-educatore. Quindi il titolo dell’articolo e’ troppo allenatori e poco educatori….

Ci troviamo in questa sede per parlare di problemi di basket, in particolare di quello giovanile. Noi tecnici, nei nostri incontri, amiamo soffermarci sui problemi di ordine tecnico-tattico, fisiologico, biomeccanico, energetico e di frequente trascuriamo gli aspetti psico-pedagogici. E’ come se ci preoccupassimo di costruire una macchina con un motore e una carrozzeria di formula uno e tralasciassimo quello che indubbiamente è l’aspetto più delicato: il pilota, colui cioè che dovrà condurre questa macchina al traguardo.

Nel basket è importante, forse più che in ogni altro settore dello sport, che l’allenatore sia anche un educatore. I motivi dell’importanza si originano dal fatto che il giovane cestista hs uns eta’ in cui non ha ancora del tutto maturato la propria personalità, non ha ancora trovato un equilibrato e deciso modo di vivere. Ha perciò bisogno dei suoi genitori, quali adulti pieni di esperienza in cui egli ripone fiducia e li considera come guida nella oscura e, per lui, incerta via della vita. E’ qui che interviene la figura dell’allenatore come educatore, come un adulto che fornisce ai suoi allievi dei principi educativi e dei modelli di vita. Perciò deve apparire ai loro occhi come un uomo deciso, equilibrato, maturo, deve cioè dimostrarsi un sicuro modello di vita cui riferirsi, uno scoglio cui aggrapparsi per salvarsi dalle onde di un mare che spesso soffocano il giovane e lo disorientano.

L’allenatore deve sentirsi direttamente responsabile anche della crescita morale e comportamentale ancora in atto nel giovane cestista, il quale, dinanzi a determinate situazioni, per inesperienza può mettere in atto tutta una serie di risposte comportamentali che potrebbero essere nocive soprattutto a se stesso. Per evitare ciò è fondamentale che l’allenatore possegga (attraverso le qualità già esposte) un ascendente sui suoi allievi, affinché costoro abbiano fiducia in lui e lo considerino come guida e modello di vita cui rifarsi.

Inoltre, l’allenatore deve essere educatore a livello sociale, nel senso che deve offrire alla squadra un modello di vita nel sociale, deve far acquisire dei comportamenti che si basino sul principio del rispetto reciproco. Ma a tal fine è necessario che si prodighi ad evitare il sorgere di situazioni conflittuali o competitive tra i compagni, le quali ostacolano l’amicizia, il rispetto, il realizzarsi di un clima sereno, ed impediscono  il completamento dello sviluppo di socializzazione ancora in atto nel giovane. Tutto ciò sarebbe indubbiamente nocivo sia per i risultati delle gare sia per lo sviluppo personale di quei giovani, i quali hanno, come tutti gli altri coetanei, pieno diritto allo sviluppo della propria personalità. Essi sono prima di tutto esseri umani e poi calciatori. Pertanto l’allenatore non può e non deve preoccuparsi né esclusivamente né prioritariamente solo del miglioramento delle qualità tecniche dei suoi allievi.

L’allenatore deve conoscere a fondo gli atleti

Come ogni altro educatore, anche l’allenatore ha bisogno di conoscere la realtà individuale di ogni atleta per far coincidere il proprio comportamento tecnico e morale con le loro reali esigenze e caratteristiche. Conoscendo di ciascun allievo i problemi, i sentimenti, il passato e le aspirazioni sarà meglio in grado di aiutarli a crescere e a maturare. Il suo intervento educativo, infatti, potrà essere direttamente proporzionale alle loro realtà personali, alle loro caratteristiche, potrà pertanto essere proficuo e positivo, e non inefficace o negativo. E’ evidente però che a tal fine necessita un rapporto continuo tra allenatore ed atleta, un rapporto che non si limiti agli incontri di allenamento ma che ne abbracci tutti i momenti di vita. Non si tratta dell’ormai superata relazione soffocante tra atleta e allenatore, il quale un tempo controllava e condizionava anche la vita più privata di ogni atleta. Al contrario, parlo di un rapporto di amicizia che permetta lo scambio di esperienze e di idee, e che, basandosi sulla fiducia porti l’atleta ad ascoltare i consigli del proprio tecnico e ad attuarli anche nella vita privata. Un rapporto reciprocamente fiducioso che assicuri all’atleta di avere sempre a disposizione una persona che sarà pronta ad aiutarlo nei casi in cui ne ha bisogno, perché gli vuole bene e vuole il suo bene.

Altrettanto utile è che l’allenatore conosca a fondo le aspirazioni e le aspettative sportive, in modo da poter intervenire per approvarlo ed incoraggiarlo al raggiungimento dei suoi obiettivi; oppure il suo intervento può essere finalizzato a fargli capire che probabilmente egli si aspetta troppo rispetto alle possibilità che ha, e che ciò potrebbe procurargli delle gravi frustrazioni; così come può intervenire per infondergli più fiducia circa le sue qualità. Naturalmente il suo atteggiamento dipenderà dal rapporto fisso tra aspirazioni e reali possibilità dell’atleta.

Di lui l’allenatore deve conoscere pure le capacità di inserimento nel gruppo. Non è raro che si presentino casi in cui dei vecchi problemi, risalenti magari alla prima infanzia, facciano del soggetto un essere poco socievole. Ciò è negativo sia per la squadra che per il calciatore in quanto uomo. Ed è per questo che il tecnico deve essere preparato e sensibile a questo tipo di situazioni. Deve pertanto esemplarmente intervenire per far capire ai calciatori l’importanza e la bellezza del vivere insieme, per farne gustare l’utilità. Deve fare della squadra innanzitutto un gruppo, affinché vi sia da una parte coerenza nel lavoro ed entusiasmo (in vista dei risultati agonistici) e dall’altra la capacità di vivere nel collettivo (in vista della personalità di ogni atleta). Capacità che di solito si acquisisce soprattutto a scuola. E’ sperimentalmente provato che ciò può provocare (e di fatto provoca) delle carenze a carattere sociale, perché manca la figura di un professore che obbliga a mettere da parte la personalità egocentrica (caratteristica dell’infante ma in parte presente ancora nell’adolescente) a favore di una personalità sociale e democratica. Perciò anche in questo caso l’allenatore deve cercare di sostituire il meglio possibile una figura: quella del professore, quale educatore e maestro di vita.

L’allenatore deve favorire uno sviluppo equilibrato dell’atleta

Il tecnico, per essere realmente educatore e preparatore della buona forma della squadra, deve essere vicino ad ogni atleta anche nella risoluzione dei problemi che sono al di fuori del mondo dello sport. Il punto è fondamentale. Infatti. Le stesse prestazioni nelle partite che si disputano dipendono non solo dalle condizioni tecniche, psicologiche, bio-meccaniche ed energetiche ma anche dalle condizioni psichiche, se il soggetto ha dei problemi che gravano su di lui gli mancano i presupposti per concentrarsi. L’aiuto dell’allenatore, allora, sarà anche diretto alla risoluzione di situazioni pesanti dell’atleta, le quali apparentemente prescindono l’attività sportiva ma di fatto la condizionano. L’equilibrio psico-fisico è sempre una garanzia in più per raggiungere l’ottima forma.

I rischi dell’eccessiva motivazione

L’equilibrio non deve riguardare soltanto il rapporto psicofisico. In effetti è umanamente auspicabile che il cestista trovi anche un equilibrio circa i suoi interessi. Questo perché l’atleta, essendo uomo non può ridursi ad una macchina specializzata in un unico settore.

La pratica sportiva non deve assolutamente diventare l’unica ragione di vita, se si vuole che il calciatore non si senta al di fuori del mondo dello sport, un disadattato. Consapevole di questo, l’allenatore non può perciò che stilare dei programmi e piani di lavoro che non pretendano di ridurre la vita dell’allievo al solo agonismo. L’atleta deve essere aperto ad altri interessi; ne ha pienamente diritto. Basilari sono ad esempio gli interessi culturali, i quali oltre ad offrire una gratificazione personale, consentono di meglio inserirsi nel mondo sociale, inoltre accrescono e migliorano le proprie qualità etico morali. Il basket sarà e potrà essere un interesse tra i più preminenti, ma non l’unico. Questo, non dimentichiamolo, è vantaggioso anche per i risultati delle prestazioni sportive; consente infatti di vivere la pratica sportiva con maggiore serenità e di sdrammatizzare quello spirito di competitività che spesso è causa di frustrazioni: certamente il conseguire un risultato positivo sulla squadra avversaria è un obiettivo indispensabile per chi vuole realizzarsi come atleta, ma lo spirito deve essere tranquillo affinché un eventuale sconfitta non sia causa di auto svalutazione e, di conseguenza, l’inizio di una lunga serie di sconfitte.

Il divertimento, la gioia, il successo.

Il problema dell’auto svalutazione delle proprie capacità è estremamente importante soprattutto nei cestisti più giovani, i quali per continuare la strada faticosa dello sport hanno bisogno di uno stimolo, di quello stimolo che è il successo delle prime tappe. Successo che, a sua volta, è legato anche ai piani di lavoro e, di arrivo che l’allenatore elabora e propone agli atleti. Piani che non possono non scaturire dalle reali facoltà, qualità e condizioni in genere del ragazzo. Se invece il tecnico pretende molto di più di quanto i suoi atleti possano dare, e se i suoi piani e programmi prescindono dalla loro condizione individuale, allora la candidatura all’insuccesso è con ogni probabilità assicurata. Anche se non intenzionalmente, in questo modo negherà al giovane atleta la gioia del buon risultato, la quale è, d’altro canto, lo stimolo per continuare a praticare sport.

L’attività ludica di gruppo

La psicologia dell’età evolutiva ci insegna che i ragazzi dai 10 ai 13 anni percorrono una fase molto delicata per loro. I problemi nascono da una situazione di incertezza e di squilibrio. Essi, cioè, sentono di non essere più bambini, sentono che stanno crescendo; ma contemporaneamente capiscono anche di non essere ancora degli adulti. Di fatto da una parte si staccano sempre di più dallo stato di dipendenza dai genitori, le loro esperienze diventano più ampie e più varie, escono dall’originario quasi esclusivo mondo familiare per imbattersi in contesti sociali, gli viene anche concessa maggiore libertà di agire sia perché stanno entrando in un modo nuovo di vivere (anche, es. a livello scolastico) sia perché capiscono che, nonostante ciò, non sono ancora degli adulti e che, al contrario di questi, non conoscono bene la vita, le maniere migliori per affrontarla. Si sentono disorientati. Da un lato non hanno perduto del tutto le caratteristiche infantili, dall’altro ne hanno acquistate delle nuove, ma non hanno ancora raggiunto un equilibrio. Intanto però la vita loro presenta degli aspetti sempre più vari ed inaspettati; perciò non sanno come agire e reagire. I problemi si assommano.

Per questo è di fondamentale importanza trovare qualcosa che possa divertirli, che risponda alle loro esigenze e che, nello stesso tempo permetta loro di sentire di essere qualcuno di ben preciso, con un definito ruolo e non una identità indefinita. Importante diventa lo sport quale strumento in grado di realizzare tutto ciò . Sport, però concepito e praticato soprattutto come attività ludica, affinché da un lato risponda alle esigenze già accennate e, dall’altro, permetta di coltivare delle qualità sportive (oltre a consentire di crescere fisicamente nel miglior modo possibile).

E’ evidente dunque, come lo sport possa divenire contemporaneamente strumento di evasione, di divertimento, di affermazione di crescita. Una crescita anche sociale e morale. Il basket ad es. in quanto sport di gruppo soddisfa le esigenze di socializzazione che il ragazzo di questa età ha. Egli si porta ancora dietro quei residui di egocentrismo infantile che non gli permettono di inserirsi del tutto tranquillamente in un gruppo. Però il dover far parte di un gruppo, in questo caso sportivo, comporta la necessità di rispettare le regole del gioco e della vita associata; diversamente il gruppo non resiste e si scioglie. Ma il soggetto che tiene a quell’attività fa di tutto perché ciò non avvenga; perciò comincia a preferire e ad imparare a soffocare le esigenze individuali dando spazio a quelle di tutto il gruppo. Mi pare che l’aspetto educativo dello sport sia rilevante!!! Anche sul piano morale proprio perché insegna a vivere democraticamente. Sport che assolve anche all’esigenza di comunicare e di dividere esperienze e sensazioni con i coetanei; l’esigenza che deriva innanzitutto dalla consacrazione da parte del ragazzo di essere un escluso e un incompreso nel mondo degli adulti, adulti che danno importanza a problemi “ben diversi” dai suoi, adulti che hanno ormai dimenticato i propri conflitti e le proprie incertezze adolescenziali. Nel gruppo di coetanei, invece, il ragazzo ritrova comprensione, ritrova simili situazioni, simili problemi. E’ per questo che ritiene importante stare con loro, è per questo che cerca di mantenere unito il gruppo e ne fa il possibile, cerca di adattarsi anche a costo di tralasciare il proprio egocentrismo ed egoismo.

Ma anche l’allenatore deve stare attento in questo senso, affinché non sorgano situazioni di sfrenata competizione all’interno del gruppo, che alcune volte è lui stesso a creare con atteggiamenti, ad es., di discriminazione e preferenza. Questi casi si fanno risentire nello svolgimento del lavoro di allenamento e condizionano gli stessi risultati della prestazione durante le partite; senza dimenticare che tolgono al giovane atleta la possibilità di soddisfare le proprie esigenze evolutive.

L’esaurimento di interessi

Non raramente accade che un adolescente esaurisca i suoi interessi per lo sport e che di conseguenza, decida di abbandonarlo. Ciò non deve destare meraviglia; ci si deve anche aspettare una reazione del genere, soprattutto quando lo sport lo asfissia e non gli dà gioia. E’ indubbio infatti che, all’età di 15-16 anni, il ragazzo cominci a reclamare i diritto di libertà di vivere senza vincoli coercitivi e mortificanti; e quando l’attività che svolge non corrisponde alle sue esigenze, non lo pratica più. Una tale decisione viene presa proprio se il suo modo di praticare lo sport non si sintonizza con queste caratteristiche adolescenziali, se si è preteso troppo da lui, se lo sport lo ha completamente assorbito, se ha mortificato altri interessanti aspetti della sua vita, se egli ha imposto una rigorosa routine di vita.

Alla luce dei risultati negativi che questa impostazione causa, l’allenatore non può fare a meno di trasformare la propria mentalità ed i propri conseguenti piani di lavoro. Egli non può chiedere al ragazzo di avere un unico interesse ed un’unica ragione di vita (lo sport). Al contrario, deve sforzarti affinché il giovane cestista trovi nello sport un mezzo di crescita, una gratificante maniera di affermarsi. Se l’allenatore riuscirà a prevenire a questo obbiettivo significherà che buona parte del suo lavoro è già fatto, cioè che i suoi allievi si impegneranno a migliorare anche tecnicamente, perché lo riterranno gioioso, interessante ed utile.

Quando le motivazioni non sono del ragazzo

Molto spesso, purtroppo, le prestazioni sportive del ragazzo atleta, vengono condizionate negativamente da certe ambizioni dei genitori e dell’allenatore. Ambizioni che lo caricano di tensioni perché si rende conto che un eventuale insuccesso provocherebbe loro delle frustrazioni talmente forti da alterarne il rapporto. Sovente, motivi narcisistici portano il genitore ed il tecnico a pressare il ragazzo in vista di una vittoria. Essi, cioè aspettano, dalla sua pratica sportiva una gratificazione personale per il ben riuscito ruolo paterno, materno e di allenatore. Una gratificazione che gli permette, inoltre, di vivere in un modo riflesso alcuni risultati che essi non hanno potuto raggiungere, permette loro di sentirsi appagati, anche se con la fatica degli altri. Né possono anche sperare un miglioramento economico, o una ascesa sociale, un aumento di popolarità.

Tali atteggiamenti rimettono in discussione il rispetto delle scelte del ragazzo, e gli tolgono ogni gioia di fare sport proprio perché scatenano in lui ansia e conflitti.

La vittoria della squadra (e, all’interno di essa, di ogni atleta) non può essere che finalizzata alla squadra stessa. Se poi il risultato di una gara è negativo, sarà ben sopportato dalla squadra stessa che anzi si impegnerà per propria scelta a migliorare. Ma se intervengono le ambizioni ed i condizionamenti di altri, la situazione si complica: i ragazzi si sentono depressi, disapprovati proprio dalle persone più care e, di conseguenza, non possiederanno quella serenità necessaria per migliorare momenti meno brillanti.

L’importanza di dare autonomia all’atleta

A mio parere, il discorso circa l’autonomia è importante per l’atleta che praticano sport individuale ma è poco attinente a uno sport collettivo come il calcio. Il ritenersi autonomo da parte di ognuno impedisce l’essenziale collaborazione, genera anzi competitività all’interno della squadra stessa e non realizza gli imprescindibili atteggiamenti di modestia che agevolano il lavoro in comune. Per l’atleta che pratica uno sport individuale è indispensabile che, in alcuni momenti, si creda autosufficiente, che valuti positivamente le sue qualità e capacità prima di imbattersi in una gara dove nessuno potrà intervenire per aiutarlo. Ma il cestista , al contrario, pratica uno sport di gruppo ove è necessaria la modestia di ognuno e la consapevolezza dell’importanza del ruolo di ogni compagno.

L’importanza dei contatti con altri gruppi di atleti.

Anche questo discorso mi sembra meno appropriato per gli atleti che praticano sport di gruppo, in quanto esistono già dei contatti all’interno della squadra, con ragazzi, che permettono già degli scambi positivi a tutti i livelli. Resta comunque ferma la convinzione che anche per costoro è bene allargare i rapporti ad altre squadre ed atleti. Ma il discorso penso sia molto più pertinente nel caso di sport non collettivi; mi appare invece importante per l’allenatore.

Conclusioni

Infine vorrei cercare di sintetizzare questo intervento che ho voluto sviluppare attraverso questi punti salienti:

  • Ø Allenatore = Educatore
  • Ø Allenatore in possesso di qualità tecniche ed umane, cioè allenatore-psicologo;
  • Ø Conoscenza dell’atleta, attraverso l’amicizia e conoscenza del suo ambiente;
  • Ø Importanza del momento culturale come crescita generale ed equilibrata;
  • Ø Rischi che si corrono con le iper-motivazioni molto spesso indotte dall’ambiente;
  • Ø Lavoro di gruppo come realizzazione dell’aspetto sociale;
  • Ø Aiuto all’atleta ad evolversi tecnicamente e psicologicamente, emancipandosi dall’allenatore.
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